Cass sez IV pen sent n. 22854 pubbl 6 giu 2024
La Corte chiarisce che non si può ritenere la autocertificazione sui propri carichi pendenti inattendibile semplicemente in tanto in quanto il richiedente “sarebbe gravato da carichi pendenti per reati contro il patrimonio” peraltro “non meglio indicati” e perché non è stato depositato il “certificato del casellario giudiziale”.
Nei termini delle presunzioni semplici applicabili al caso in esame non si è trattato di “specifici ed oggettivi elementi fattuali” di portata tale “da far ritenere che l’imputato percepisse redditi illeciti nel corso dell’anno 2019”, come in effetti dovrebbe legittimamente attendersi.
Il Tribunale di Sciacca che aveva rigettato la opposizione contro il decreto del GIP che aveva respinto la domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. L’imputato con autocertificazione aveva attestato la consistenza del nucleo familiare e un reddito inferiore a quello stabilito dalla legge per l’ammissione al beneficio. Il GIP aveva ritenuto di considerare anche il reddito “tratto da attività illecita”, dando rilievo autonomamente ad “almeno quattro procedimenti per reati contro il patrimonio” attraverso i quali si potevano “presumere che l’imputato si alimentasse con attività illecite e che avesse un reddito superiore”.
Le ragioni della opposizione vengono fondate sull'errato ragionamento del Tribunale laddove si rifa ad “uno schema logico presuntivo basato sulla circostanza, negativa, della mancata produzione del certificato del casellario giudiziale, in modo da inferirne il ragionevole convincimento della esistenza di redditi occultati derivanti da attività illecita”.
Tale ragionamento apparirebbe di “portata meramente congetturale” e viziato per una “sostanziale elusione dell’obbligo di motivare i provvedimenti giudiziari”.
La Corte afferma che “pur non difettando un profilo di carattere patrimoniale, acquista innegabile peso la circostanza che il diritto di cui si discute si riverbera sull’effettivo esercizio del diritto di difesa nel processo penale” e “in tale ambito, quindi, appare razionale e conforme ai principi dell’ordinamento ritenere che, dato il carattere accessorio della controversia rispetto al processo penale, debbano trovare applicazione, fin dove è possibile, i principi e le regole dell’ordinamento penale”.
Attesi i suddetti chiarimenti, il ricorrente può devolvere l’intera questione al giudice dell’opposizione che dovrà applicare la regola del giudizio prevista dall’art. 96 t.u.s.g. A norma del quale l’istanza va respinta “se vi sono fondati motivi per ritenere che l’interessato non versa nelle condizioni di cui agli articoli 76 e 92 del dpr n. 115/2002, tenuto conto delle risultanze del casellario giudiziale, del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle attività economiche eventualmente svolte”, ciò che “comporta per il giudice l’obbligo di motivare in relazione ai contenuti probatori, anche indiziari, acquisiti al processo”.
Il principio di diritto enunciato: “Il giudizio di cui all’art. 99 dpr n. 115/2002 avverso il provvedimento con cui il magistrato competente rigetta l’istanza di ammissione non è a critica vincolata e consente una piena devoluzione delle questioni relative all’accertamento dei presupposti del beneficio al giudice competente”.
“A seguito del rigetto dell’istanza, a prescindere dalle ragioni indicate nel provvedimento, posto che il ricorrente può devolvere l’intera questione al giudice dell’opposizione, lo stesso giudice dovrà applicare la regola di giudizio corrispondente a quella prevista dall’art. 96 Dpr n. 115/2002, con l’obbligo di procedere alla valutazione composita degli indici ivi indicati, compresi quelli indiziari (nel rispetto delle previsioni dell’art. 192 cod.proc.pen.), secondo le acquisizioni del processo e senza dare ingresso a presunzioni assolute o a criteri di gerarchia tra le medesime fonti di prova”.
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